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Cessione dell’appartamento e indennizzo per irragionevole durata del processo

Stefania Massaro

Avvocato del Foro di Roma - Consulente CSC - Segretario Nazionale UNAI

Secondo l’indirizzo consolidato della Corte di Cassazione:

“In tema di trasferimento del diritto controverso per atto tra vivi a titolo particolare, il processo prosegue tra le parti originarie e, pertanto, sono ininfluenti le vicende attinenti a posizioni giuridiche attive o passive successive all’inizio della causa”

Che cosa succede se si vende una casa in condominio quando c’è in corso una vertenza giudiziaria?
Su questa questione è stata chiamata pronunciarsi la Suprema Corte, con sentenza n. 5529 del 28 febbraio 2020.
Nel caso preso ad esame dai Giudici Ermellini, la Corte di Appello adita aveva suddiviso il lasso temporale del giudizio tra cedente e cessionario dell’appartamento in ragione del momento della cessione dello stesso appartamento. Questo aveva, pertanto, portato ad imputare il primo grado al cedente e il grado di appello al cessionario.

Appellandosi ai principi generali processuali, la Suprema Corte ha rilevato l’erroneità di simile operazione. Ex art. 111 c.p.c., infatti, in caso di trasferimento per atto tra vivi a titolo particolare del diritto controverso, il processo prosegue tra le parti originarie e il successore a titolo particolare può intervenire o essere chiamato nel processo e, solo se le altre parti vi consentono, può esserne estromesso.
Ne deriva che, senza che assumesse rilievo la vicenda legata alla cessione dell’immobile, il cedente rimane parte del processo anche nel secondo grado.
Così ancora. “Nel caso di successione a titolo particolare nel diritto controverso, il processo, in virtù del principio stabilito dall’art. 111 cod. proc. civ., continua tra le parti originarie, con la conseguenza che l’alienante mantiene la sua legittimazione attiva (“ad causam”), conservando tale posizione anche nel caso di intervento, ai sensi del medesimo articolo 111, terzo comma, cod. proc. civ., del successore a titolo particolare, il quale ha legittimazione distinta e non sostitutiva, ma autonoma.

Ne discende che, ai fini della domanda di equa riparazione ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, ciascuno di loro non potrà che riferire la pretesa indennitaria per violazione del termine ragionevole del processo alla diversa durata della rispettiva presenza nel giudizio presupposto» (Sez. 2, Sent. n. 1200 del 2015)”.
Nei confronti di chi opera l’indennizzo per l’irragionevole durata del processo?
verificare l’eventuale durata irragionevole del processo spetta comunque al giudice del rinvio, con riferimento alla diversa partecipazione al giudizio del condomino parte originaria del giudizio, e del suo successore, parte interveniente ex art. 111 c.p.c., tenendo conto dell’effettiva partecipazione alla controversia dell’uno e dell’altro.
Lo ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 5529 del 28 febbraio 2020, evidenziando che, in tema di ragionevole durata del processo, i rinvii dovuti ad espresse richieste della parte ricorrente o dei suoi difensori, o da costoro accettati espressamente o non contestati, costituiscono circostanze di fatto la cui valutazione è rimessa, appunto, al giudice di merito.

Come conteggiare la durata del processo?

Quanto al periodo di tempo di stasi processuale intercorso tra i due gradi di giudizio, nella fase in cui la decisione del primo grado era passibile di impugnazione con il trascorso del relativo termine, è stato operato il rimando ai precedenti della Cassazione.

“… è sufficiente richiamare la giurisprudenza di questa Corte secondo la quale «L’art. 2, comma 2-quater, della I. n. 89 del 2001, introdotto dal d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla I. n. 134 del 2012, – secondo cui, ai fini del computo del termine ragionevole di durata, “non si tiene conto del tempo in cui il processo è sospeso e di quello intercorso tra il giorno in cui inizia a decorrere il termine per proporre l’impugnazione e la proposizione della stessa” -pur se destinato ad essere applicato ai giudizi introdotti successivamente all’H settembre 2012, esprime un chiaro elemento interpretativo della “ratio” della legge sull’equa riparazione, da ritenersi operante, in assenza di una previsione legislativa di segno contrario, anche per i processi instaurati anteriormente alla sua entrata in vigore; sicché non può essere addebitato all’amministrazione della giustizia il lasso di tempo di stasi processuale, nel quale nessun giudice è incaricato della trattazione del processo, come quello relativo al decorso del termine (nella specie, c.d. “lungo”) per proporre impugnazione» (Sez. 6-2, Sent. n. 26833 del 2016).”

In questo senso, giova che ricordare che per la c.d. Legge Pinto per il primo grado di giudizio sono da ritenersi ragionevoli tre anni, mentre per il secondo grado due e per il grado di legittimità un solo anno. Occorre, poi, distinguere tra giudizio civile e giudizio penale: per il primo il termine decorre dal deposito del ricorso introduttivo o dalla notifica dell’atto di citazione.
In ragione, infine, del principio tempus regitactum, dal momento che, nella fattispecie in esame, il giudizio di equa riparazione era iniziato il 9 luglio 2014, il giudice di merito ha applicato i criteri di determinazione dell’indennizzo di cui all’art. 2 bis, I. n. 89 del 2001.
Il principio di diritto cui fare riferimento a questo proposito è quello che segue: “Le disposizioni in tema di equa riparazione per violazione del termine ragionevole di durata del processo, introdotte dal d.l. 22 giugno 2012, n. 83 convertito in legge 7 agosto 2012, n. 134 (nella specie, i l’art. 2 bis, comma 3, aggiunto alla legge 24 marzo 2001, n. 89, sulla misura massima dell’indennizzo), non hanno natura di interpretazione autentica né efficacia retroattiva, ma si applicano ai ricorsi depositati a decorrere dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione (Sez. 2, Sent. n. 19897 del 2014)”.

Ancora, “In tema di equa riparazione da irragionevole durata del processo ai sensi della I. n. 89 del 2001, ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale, il giudice nazionale deve, in linea di principio, uniformarsi ai parametri elaborati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per i casi simili, salvo il potere di discostarsene, in misura ragionevole, qualora, avuto riguardo alle peculiarità della singola fattispecie, ravvisi elementi concreti di positiva smentita di detti criteri, dei quali deve dare conto.
La parte che si dolga in sede di legittimità della inadeguatezza della liquidazione del danno non patrimoniale in termini di irragionevole divario rispetto ai criteri adottati dalla giurisprudenza della Corte europea ha, comunque, l’onere di allegare sia i fatti ritenuti rilevanti per fondare la censura di malgoverno della valutazione equitativa da parte del giudice di merito sia i concreti elementi di analogia con i casi consimili in cui, in sede europea, sono stati applicati i parametri più favorevoli (Sez. 2, Ord. n. 27352 del 2018)”.

Ex Legge Pinto, l’indennizzo liquidato dal giudice a titolo di equa riparazione deve risultare pari ad un ammontare non inferiore a quattrocento euro e non superiore a ottocento euro per ciascun anno o frazione ultra semestrale di anno in cui il processo ha ecceduto la durata ragionevole..



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