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Le limitazioni previste a carico del singolo condomino dal regolamento condominiale

Luca Ficuciello

Avvocato del Foro di Foggia

 

Sulla stessa tematica, l’Avvocato Luca Ficuciello sarà relatore al Webinar in diretta FB il giorno 22 aprile 2020 alle ore 12.30 alla pagina:
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Il regolamento condominiale di cui all’art. 1138 c.c., approvato in assemblea con le maggioranze indicate nel citato articolo, permette di regolamentare l’uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese, nonché le norme per la tutela del decoro dell’edificio e quelle relative all’amministrazione, a condizione di ossequiare quanto stabilito dalla legge, legge che –infatti- non può essere derogata.

Il medesimo articolo, infatti, recita testualmente “secondo i diritti e gli obblighi spettanti a ciascun condomino”.

I condomini, attraverso apposito regolamento, avranno la possibilità, tra l’altro, di decidere le modalità di utilizzo di una parte comune, ovvero in che misura attribuire, ad esempio, pro capite, le spese del riscaldamento, optando per uno dei criteri suggeriti dalla Cassazione, in ogni caso in aderenza a quanto normato dall’art. 1123 co. 2 c.c.

In determinate circostanze un regolamento condominale può fissare delle limitazioni al diritto delle singole esclusive proprietà (ad esempio: divieto di adibire l’appartamento a sede di uffici, enti, o di serbare all’interno qualsiasi tipo di animale, di non realizzare pertinenze, e cosi via discorrendo).

Siffatte determinazioni, va detto, rivestono matrice non regolamentare, quanto piuttosto contrattuale, atteso che “il regolamento di condominio non può disciplinare, in quanto tale, le situazioni di diritto reale dei compartecipi in ordine alle parti comuni dell’edificio ed a quelle di proprietà esclusiva (…)” (Cassazione 03.10.1979 n. 5078): per poter porre limiti a questo tipo necessita il consenso di ciascun condomino.

Di prassi, questi patti sono contemplati nel regolamento (definito “contrattuale”),  posto in essere dal primigenio ed unico proprietario, che procede ad allegarlo a ciascun atto di singola vendita, ovvero, una volta allegato al solo primo strumento di alienazione, provveda ad evocarlo espressamente in tutti gli atti successivi.

Diversamente, ipotesi meno ricorrente, le menzionate pattuizioni limitative possono essere contemplate in una scrittura privata successiva e –di seguito- sottoscritta da tutti i condomini.

La scrittura, viepiù, può anche essere proposta ricorrendo ad un regolamento condominiale, le cui determinazioni debbano essere accettate da tutti i condomini, a mente delle limitazioni ai diritti reali.

Per considerare vigenti le citate pattuizioni non è sufficiente –pertanto- che il regolamento sia, “sic et simpliciter”, approvato dall’assemblea, seppur con l’unanimità dei condomini: perché ciò avvenga, necessita la volontà di tutti questi ultimi di concordare -contrattualmente- i limiti al diritto reale di proprietà.

L’assemblea, in “subiecta materia”, non ha poteri per decidere, siccome contesto esorbitante le attribuzioni che il Legislatore le ha riconosciuto con l’art. 1135 c.c.: la forma scritta è condizione per rendere efficaci le limitazioni in oggetto, con consequenziale necessaria sottoscrizione di tutti i condomini.

La Cassazione, al proposito, argomenta che le compressioni all’oggetto dei diritti di proprietà esclusiva sono assunti con efficacia “con il consenso unanime dei partecipanti manifestato nelle debite forme, assumendo così natura contrattuale” (Cassazione 03.10.1979 n. 5078).

Non è chi non veda che per “debite forme” vada considerata la forma scritta (Cassazione 14.11.1991 n. 12173); in  questo caso il concetto di forma scritta va interpretata non nel senso del consueto regolamento condominiale, (sicuramente scritto, ma approvato a maggioranza e non necessariamente sottoscritto), quanto piuttosto che il medesimo documento vada firmato da ciascuno dei condomini.

La firma è “condicio” necessaria perché le compressioni al diritto reale di proprietà possano far sorgere a “degli oneri reali” (Cassazione 21.05.19978 n. 4509) “o servitù sui diritti immobiliari dei condomini sulle loro proprietà esclusive o sulle parti comuni” oppure “attribuiscono a taluni condomini diritti di natura maggiori di quelli degli altri condomini.

Ne discende (…) il requisito della forma scritta ad substantiam” (Cassazione 30.12.1999 n. 943).

Vertendosi in tema di oneri reali o di servitù, la sottoscrizione è prevista dall’art. 1350 c.c., dal momento che “chi tali limitazioni afferma, deve dunque provare, per iscritto, sia l’esistenza dell’altrui obbligo, nel quale si concretizza la assenta limitazione dell’altrui diritto di proprietà, sia l’esistenza del suo corrispondente diritto di avvalersi di tale limitazione” (testo estrapolato dalla motivazione della sentenza della Corte di Cassazione 19.10.1998 n. 10335).

Di conseguenza è lecito che si considerino limitazioni al diritto di proprietà anche le eccezioni all’art. 1102 c.c., in materia di possibilità, per il condomino, di realizzare modifiche, a suo carico, per  godere al meglio della cosa comune a proprio vantaggio (casi concreti possono essere quelli del divieto di aprire nuove finestre, del divieto di realizzare nuovi balconi, del divieto di apporre tende, ecc.).

La Cassazione, sul punto, ricorda che questo articolo “è derogabile per regolamento condominiale avente efficacia contrattuale, in quanto sottoscritto da tutti i condomini (…)”. (Cassazione 5.10.92 n. 10895), ipotesi –questa- che la Cassazione indica come necessitante della sottoscrizione.

I termini “concorde” e “unanime”, di sovente a scorgersi nelle sentenze della Corte di Cassazione sul tema de quo, non sono riservati solo ai partecipanti all’assemblea (anche quando gli stessi siano in rappresentanza di ognuna delle singole unità abitative), ma a tutti i condomini in assoluto.

Frequentemente sovviene l’ipotesi per cui un immobile in condominio sia in comunione, riferita a più persone: in tali circostanze è necessario il consenso, e per l’effetto, la sottoscrizione, di tutti i comproprietari della singola unità immobiliare ex art. 1108 co 4 c.c., articolo che stabilisce la necessità del consenso di “tutti i partecipanti della comunione” per gli atti di trasferimento o di nascita di diritti reali.

Identico obbligo sorge nella ipotesi di immobile posto in comunione legale dei beni ex art. 180 co 2 c.c..

In buona sostanza, affinchè un regolamento possa considerarsi “contrattuale”, non è sufficiente –pertanto- la presenza di tutti i condomini nel consesso assembleare, ma dovrà intervenire un atto ulteriore, sottoscritto da tutti gli amministrati.

Valga affermare il concetto per cui  il regolamento contrattuale, perché lo si possa rendere opponibile ai terzi acquirenti, debba essere trascritto presso la Conservatoria dei registri immobiliari oppure, come soluzione subordinata, evocato nei successivi atti di vendita.

Colui, pertanto, che dovesse avere interesse nei confronti di un determinato diritto, deve essere posto nella condizione di controllare ciascuna accettazione dei patti negoziali, e non –piuttosto- a vedersi ridurre la sua verifica ad una mera operazione di accezione di un verbale di assemblea privo, evidentemente, delle generalità complete dei proprietari; lo stesso è a dirsi se gli astanti fossero o meno in piena proprietà, anche in virtù del fatto che, nella ipotesi di usufrutto, alla assemblea –come consuetudine-  partecipa sempre l’usufruttuario, quando –di converso- una decisione di questa portata va riferita al nudo proprietario.

L’assenza della sottoscrizione, di conseguenza, comporta la nullità della clausola limitativa del diritto di proprietà: è, questo, un caso di nullità, giammai di annullabilità, eccezione sollevabile anche perenti i 30 giorni stabiliti per l’impugnazione della delibera.

Questa forma di nullità può essere sollevata, come eccezione, anche da parte di chi abbia prestato il proprio consenso alla delibera che ha sancito le limitazioni al diritto di proprietà, così come ad evincersi anche dalla medesima sentenza della Cassazione in altro passo della motivazione “l’esistenza del regolamento condominiale, dopotutto riconosciuta dallo stesso ricorrente (…) non documenta la validità della sua parte ‘contrattuale’, di quella cioè che prevede limitazioni nell’uso di quanto da lui acquistato; ossia che tale parte sia stata validamente stipulata, e sia frutto della concorde volontà sia del suo dante causa, sia dei condomini che di tale limitazione beneficiano (…)” (passo estrapolato dalla motivazione della sentenza della Corte di Cassazione 19.10.1998 n. 10335).

La citata nullità può essere esercitata da chiunque vi ha interesse e può essere rilevata d’ufficio anche dal Giudice ex art. 1421 c.c..

La nullità può essere eccepita anche dal condomino che vi abbia votato a favore perché “(…) da una parte il principio di cui all’art. 1421 c.c., secondo cui la nullità può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse, salvo diverse disposizioni di legge, non risulta derogato dalle norme in tema di comunione o di condominio e dall’altra la regola per la quale chi ha dato causa alla nullità non può farla valere è propria della materia processuale, ma è estranea alla materia sostanziale, dove l’azione è concessa anche a chi abbia partecipato alla stipulazione di un atto nullo” (Cassazione 27.05.1982 n. 3232).

In buona sostanza, la compressione al diritto di proprietà è ammissibile a condizione che sia sancita dalla adesione resa da tutti i condomini (per un appartamento in comunione, occorre la sottoscrizione di tutti i comproprietari).

Naturale corollario alla predetta affermazione è rappresentata dal fatto che se le limitazioni approvate potranno nutrire valore anche nei confronti dei futuri acquirenti, il regolamento contrattuale (laddove non trascritto presso la Conservatoria dei Registri Immobiliari), dovrà essere allegato ad ogni singolo atto di alienazione immobiliare.

Riassumendo: le limitazioni del diritto di proprietà devono essere accettate mediante sottoscrizione da tutti i condomini (nel caso di un appartamento in comunione, occorre la sottoscrizione di tutti i comproprietari).

Per far sì che le limitazioni approvate abbiano valore anche nei confronti dei futuri acquirenti, il regolamento contrattuale (se non trascritto presso la Conservatoria dei Registri Immobiliari) deve essere allegato ad ogni singolo atto di vendita.

E’ di palmare evidenza, poi, che le clausole del regolamento condominiale di natura contrattuale che statuiscano limitazioni alla proprietà privata, per essere opponibili ai terzi acquirenti, dovranno essere esplicitate in modo chiaro ed esplicito, anche indipendentemente dalla trascrizione, atteso che le stesse devono ritenersi conosciute o accettate solo in base al richiamo o alla menzione di esso nel contratto (Cass. n. 17886/09; Cass. 10523/03) e quella per cui la clausola che imponga il divieto di destinare i locali di proprietà esclusiva a determinate attività, debba essere approvata all’unanimità e -per avere efficacia- debba essere trascritta nei registri immobiliari, ovvero essere richiamata ed accettata espressamente nei singoli atti d’acquisto (Cass. 6100/93).

Giova, poi, osservare che insistono ulteriori interpretazioni giurisprudenziali che ritengono –invece- sussistere, in relazione alla tipologia di clausola, una servitù piuttosto che un onere o –ancora- una cd. obbligazione propter rem (che impone una relazione di sudditanza tra l’obbligato e il titolare del diritto di proprietà), ragion per cui possono costituirsi pesi a carico di unità immobiliari di proprietà esclusiva e a vantaggio di altre unità abitative, cui corrisponda il restringimento e l’ampliamento dei poteri dei rispettivi proprietari, o possano imporsi prestazioni positive a carico dei medesimi e a favore di altri condomini o di soggetti diversi, ovvero possano limitarsi il godimento o l’esercizio dei diritti del proprietario dell’unità immobiliare.

Nella prima ipotesi è ipotizzabile un diritto di servitù, trascrivibile nei registri immobiliari; nella seconda un onere reale e nella terza una obbligazione propter rem, non trascrivibile.

Il divieto di riservare l’immobile ad una determinata destinazione, cioè di svolgervi determinate attività, è sussumibile nell’alveo di quest’ultimo istituto, e il relativo diritto è prescrittibile se il creditore non lo esercita per il periodo predeterminato dalla legge (Cass. n. 11684/02)”; può aggiungersi, altresì, un altro orientamento per cui le clausole limitative, predisposte dall’originario unico proprietario, laddove accettate dai primi acquirenti e ritualmente trascritte nei registri immobiliari, possano determinare un vincolo a cagione dei successivi acquirenti, sia in merito all’uso o al godimento delle parti comuni, che per le limitazioni alla proprietà privata, configurandosi in tali casi, una servitù reciproca (Cass. 3749/99; Cass. 14898/13).

Si appalesa, perciò, il seguente principio di diritto: “la previsione contenuta in un regolamento condominiale convenzionale di limiti alla destinazione delle proprietà esclusive, incidendo non sull’estensione ma sull’esercizio del diritto di ciascun condomino, deve essere ricondotta alla categoria delle servitù atipiche, e non delle obbligazioni propter rem, non configurandosi in tal caso il presupposto dell’agere necesse nel soddisfacimento d’un corrispondente interesse creditorio.

Pertanto, l’opponibilità ai terzi acquirenti di tali limiti va regolata secondo le norme proprie della servitù, e dunque avendo riguardo alla trascrizione del relativo peso, indicando nella nota di trascrizione, ai sensi degli artt. 2659, primo comma, n. 2, e 2665 c.c., le specifiche clausole limitative, non essendo invece sufficiente il generico rinvio al regolamento condominiale“(Cass. 18.10.2016, n. 20124).

Entrando più specificatamente nel computo delle applicazioni concrete, è legittimo poter affermare che, pur prescindendo dalle quote di proprietà, ciascun condomino abbia diritto di servirsi del bene comune nella sua pienezza ed interezza, consentendosi dunque anche un uso più intenso della cosa da parte di un singolo, a condizione che non ne esca pregiudicata la facoltà degli altri condomini di fare pari uso del bene.

Sulla scorta di tali considerazioni, la Suprema Corte di legittimità,  ha avuto modo di precisare che «Essendo i rapporti condominiali informati al principio di solidarietà, il quale richiede un costante equilibrio fra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione, qualora sia prevedibile che gli altri partecipanti alla comunione non faranno un pari uso della cosa comune, la modifica apportata alla stessa dal condomino deve ritenersi legittima, dal momento che in una materia in cui è prevista la massima espansione dell’uso, il limite al godimento di ciascuno dei condomini è dato dagli interessi altrui, i quali pertanto costituiscono impedimento alla modifica solo se sia ragionevole prevedere che i loro titolari possano volere accrescere il pari uso cui hanno diritto» (Cass. sez. II, sentenza 03/08/2012, n. 14107).

La recente sentenza Cass. Civ., sez. II, 03/06/2015, n. 11445, ribadisce i criteri dinanzi passati in rassegna: essa afferma, infatti, che «Il disposto dell’art. 1102 cod. civ. è nel senso che ciascun comproprietario ha diritto di trarre dal bene comune un’utilità – più intensa o anche semplicemente diversa da quella ricavata eventualmente in concreto dagli altri comproprietari, purché  non ne venga alterata la destinazione o compromesso il diritto al pari uso. A tal fine il singolo condomino può apportare alla cosa comune le modificazioni del caso, sempre sul presupposto che l’utilità, che in contrasto con la specifica destinazione della medesima (Cass. 12310/11) o, a maggior ragione, che essa non perda la sua normale ed originaria destinazione (Cass. 1062/11)».

Ma la Corte, nel suo percorso nomofilattico, non ha mancato di tratteggiare i limiti che il Codice prevede anche per gli interventi intrapresi dal singolo sulla propria proprietà esclusiva. Tali limiti, ad avviso del Supremo Collegio, vanno individuati nelle disposizioni dell’art. 1120 c.c.

Tale norma infatti, nella parte in cui vieta le innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico, ha individuato gli interessi condominiali che non possono essere lesi neppure con le innovazioni deliberate a maggioranza dall’assemblea condominiale.

Ne consegue dal punto di vista logico che appare giustificata l’applicabilità di questa norma sia alle modifiche che il singolo partecipante apporti alla cosa comune per servirsene più intensamente, sia alle attività del singolo rese su cosa propria, comunque finalizzate all’uso più intenso della cosa comune.

Ne consegue che la realizzazione di un’opera come quella presa in esame dalla sentenza richiamata (ampliamento di un originario varco), deve ritenersi consentita al singolo condomino, senza bisogno del consenso degli altri partecipanti al condominio, a condizione che non risulti violato il precetto dettato dal quarto comma dell’art. 1120 in precedenza citato.

Avv. Luca Ficuciello

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