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Le immissioni e i limiti di tollerabilità in condominio

Claudio Turci

Avvocato del Foro di Roma - Consulente del Centro Studi Condominiali di Roma - Membro del Servizio di Consulenza Nazionale UNAI

 

Le immissioni di rumore vietate dalla legge sono quelle che superano la c.d. “normale tollerabilità”. Contro le immissioni rumorose è prevista una tutela sia in sede civile (art. 844 e 2043 c.c.) sia in sede penale (articolo 659 c. p.). 
C’è anche una tutela in sede amministrativa anche se nei fatti è risultato sempre piuttosto difficile convincere la pubblica amministrazione ad intervenire a tutela dei privati.

 

Le immissioni rumorose, intese quali generazioni di rumori provenienti da un fondo o da un immobile, sono vietate dalla legge laddove risultino intollerabili, vale a dire qualora determinino un impatto tale da non permettere un’adeguata fruizione della proprietà privata ai vicini di fondo o di abitazione, o nel caso in cui originino un elevato grado di disturbo nei confronti dei residenti negli alloggi attigui alla fonte rumorosa.

Secondo quanto costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, i possibili fenomeni immissivi che ricadono nell’ambito di operatività della normativa di riferimento, l’art. 844 c.c., devono rispondere a precisi requisiti. Più in particolare, la disposizione va limitata alle sole immissioni aventi carattere materiale, indiretto e continuativo, che derivino dall’attività svolta su un fondo del vicino. L’immissione deve dunque presentare i requisiti: della materialità, e cioè necessità che essa sia percepibile ai sensi dell’uomo ovvero influisca oggettivamente sul suo organismo (per esempio: radiazioni nocive) o su apparecchiature (per esempio: correnti elettriche e onde elettromagnetiche); del carattere indiretto o mediato, nel senso che essa non consista in un facere in alienum, ma costituisca ripercussione di fatti compiuti direttamente o indirettamente dall’uomo nel fondo da cui si propaga; dell’attualità di una situazione di intollerabilità, non configurando semplice pericolo di essa, bensì derivante da una continuità, o almeno periodicità, anche se non a intervalli regolari, dell’immissione.

Contro le immissioni rumorose è prevista una tutela sia in sede civile, sia in sede penale e sia in sede amministrativa.

Nell’ambito civile la normativa generale di riferimento è quella disposta dall’art. 844 c.c., ai sensi della quale “il proprietario di un fondo non può impedire le immissioni di fumo o di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e simili propagazioni derivanti dal fondo del vicino, se non superano la normale tollerabilità, avuto anche riguardo alla condizione dei luoghi”.

Le immissioni di rumore vietate dalla legge sono quelle che superano la c.d. “normale tollerabilità”.

La valutazione sulla tollerabilità del rumore è rimessa alla determinazione da parte del giudice competente. Secondo una giurisprudenza consolidata il limite della normale tollerabilità è superato quando la differenza tra il rumore complessivamente misurato e il rumore di fondo eccede i 3 decibel (se i rumori si verificano nelle ore notturne) o i 5 decibel (se i rumori si verificano di giorno).

Il legislatore al comma 2 dell’articolo 844 del codice civile introduce un limite all’applicabilità del criterio della normale tollerabilità, configurato in un contemperamento da parte del giudice nell’applicazione della norma tra le esigenze della produzione e quelle della proprietà, tenendo anche  in considerazione la priorità di un determinato utilizzo.

La priorità è stata intesa dalla Corte di Cassazione come il “preuso”: ad esempio l’acquirente di una villetta sita in una zona industriale deve prevedere la verificazione di possibili immissioni e tener conto che il limite della tollerabilità risulta essere più alto rispetto ad una zona residenziale; o ancora, se si acquista un immobile in zona residenziale ma vicino a un disco pub è prevedibile una certa rumorosità che potrebbe rientrare nel concetto della “normale tollerabilità”.

In ogni caso sarà sempre necessaria una valutazione del caso concreto. In caso di contenzioso occorre anche valutare se il proprietario di un’attività rumorosa abbia adottato o meno le necessarie cautele per evitare il propagarsi di rumori nelle proprietà dei vicini.

L’uso di insonorizzazioni, la predisposizione di accorgimenti tecnici come quello della realizzazione del “tetto sonoro”, e  l’utilizzo di sistemi di controllo e di limitazione della potenza degli impianti acustici,  consentono in genere di far rientrare la rumorosità entro il suddetto limite.

Una volta accertato il superamento della normale tollerabilità, il soggetto leso dalle immissioni di rumore, può porre in essere uno dei mezzi di tutela previsti dal nostro ordinamento.

In ambito civilistico, possono essere esercitate due azioni:

  • l’azione inibitoria;
  • l’azione per il risarcimento del danno.

L’azione inibitoria è un tipo di azione diretta a impedire al proprietario del fondo da cui provengono le immissioni il perpetuarsi delle stesse. Questo può avvenire sia attraverso l’imposizione di un obbligo di cessare l’attività rumorosa, sia attraverso l’imposizione di misure adatte a ridurre la rumorosità stessa.

Sempre sul piano civilistico è possibile esercitare una normale azione per il risarcimento del danno sulla  base del principio generale contenuto nell’art. 2043 del codice civile.

Tale norma di carattere generale prevede il diritto al risarcimento nel caso di danno ingiusto derivante da fatto doloso o colposo altrui.

Sono diverse le voci di danno che possono essere richieste al responsabile: oltre al disturbo alla quiete e al riposo, possono verificarsi anche danni alla salute psico-fisica, in particolar modo se trattasi di rumori prolungati nelle ore notturne.

In tal caso sarà opportuno dimostrare il nesso di causalità tra l’esposizione prolungata del rumore e il danno subìto per ottenere anche un ristoro di tale componente del danno.

L’azione inibitoria e quella risarcitoria possono essere anche proposte congiuntamente in un unico procedimento. Essendo dunque le due domande cumulabili, con un’unica azione si può chiedere la cessazione del disturbo e il risarcimento del danno subito.

Sotto il profilo probatorio, chi intende ottenere il risarcimento del danno dovrà dimostrare da un lato il  superamento del limite della normale tollerabilità delle immissioni di rumore, e, dall’altro lato, di aver subito danni a seguito dell’esposizione ai rumori.

Tra i mezzi di prova più efficienti vi sono le perizie tecniche, mediante l’utilizzo del c.d. metodo del “valore differenziale”. Il consulente tecnico d’ufficio dovrà misurare la differenza di decibel tra il rumore che arreca disturbo e il rumore di fondo, registrato in assenza della fonte rumorosa oggetto di contestazione.  Una volta accertata  la misura del “differenziale”  basterà constatare se questo sia superiore a 3 decibel nelle ore notturne o a 5 decibel nelle ore diurne.

Per quanto riguarda la tutela in sede penale l’art. 659 del codice penale al primo comma sanziona sia il comportamento commissivo che quello omissivo volto a produrre rumori molesti, recando così danno al riposo e alle occupazioni delle persone.

La pena prevista è fino a tre mesi di arresto o un’ammenda fino a 309 euro.

Il secondo comma invece prevede solo un’ammenda fino a 103 euro per chi esercita una professione o un mestiere rumoroso contro le disposizioni della legge o le prescrizioni dell’Autorità.

Per questo reato non è prevista la querela da parte dell’interessato, bensì la procedibilità d’ufficio.

La persona offesa può costituirsi parte civile all’interno del processo penale e chiedere così anche in tale sede il ristoro dei danni subiti. Ferma la possibilità di agire in sede civile, perchè si possa configurare reato è necessario che i rumori arrechino disturbo ad un numero indeterminato di persone, non essendo sufficiente quindi che il disturbo alla quiete interessi un solo soggetto.

Pronunciandosi ancora una volta in materia di immissioni di rumore la Corte di Cassazione (sentenza 2 dicembre 2013, n. 47830) ha ricordato che la responsabilità sotto il profilo penale non sussiste per il semplice fatto di aver arrecato disturbo al sonno di un vicino.

Come spiega la Corte, perchè si possa configurare il reato previsto dall’art. 659 c.p. non basta che i rumori disturbino i soli abitanti degli appartamenti di un condominio che si trovano ai piani immediatamente superiori o inferiori da quello in cui si propaga il rumore. E’ necessario piuttosto che il disturbo riguardi una quantità indeterminata di soggetti. La Suprema Corte ha così annullato una sentenza di condanna inflitta dai giudici di merito ad un uomo che era finito sotto processo per la sua abitudine di suonare ad alto volume la chitarra elettrica anche nelle ore notturne.

Perché sussista il reato, spiega la Corte, è necessario che l’attività rumorosa sia idonea a disturbare un numero considerevole di soggetti e quindi che il disturbo riguardi tutti i condomini o quelli degli stabili che si trovano nelle vicinanze.

Concludendo, la norma di riferimento (l’art. 659 c.p.) prevede come requisito per la configurabilità del reato un disturbo alla quiete pubblica.

In tali casi i soggetti che subiscono immissioni di rumore intollerabili hanno sempre la possibilità di richiedere una tutela dinanzi al giudice civile ex artt. 844 e 2043 c.c.

Oltre la tutela prevista dal codice civile e dal codice penale va anche considerata una tutela aggiuntiva che è quella sancita dalla legge quadro sull’inquinamento acustico (L. 447/1995).

Tale normativa si fonda sul presupposto che l’immissione di rumori possa ledere la salute, fondamentale diritto dell’individuo tutelato dall’articolo 32 della Costituzione, stabilendo pertanto all’art. 9 che il Sindaco possa ordinare il ricorso temporaneo a speciali forme di contenimento o di abbattimento delle emissioni sonore, inclusa l’inibitoria parziale o totale di determinate attività.

Per poter emettere questa ordinanza è comunque necessario l’intervento dell’Agenzia Regionale di Protezione Ambientale (ARPA) che deve effettuare i rilievi tecnici per misurare l’entità dei rumori in decibel.

La legge prevede anche che i comuni adottino il piano comunale di classificazione acustica, ossia un atto tecnico-politico che pianifica gli obiettivi ambientali di un’area in relazione alle sorgenti sonore esistenti per le quali vengono fissati dei limiti. La classificazione acustica consiste nella suddivisione del territorio comunale in aree acusticamente omogenee a seguito di attenta analisi urbanistica del territorio stesso tramite lo studio della relazione tecnica del piano regolatore generale e delle relative norme tecniche di attuazione. L’obiettivo della classificazione è quello di prevenire il deterioramento di zone acusticamente non inquinate e di fornire un indispensabile strumento di pianificazione dello sviluppo urbanistico, commerciale, artigianale e industriale.

Il P.C.C.A. viene comunemente chiamato “zonizzazione acustica” (abbreviato in ZAC per Zonizzazione Acustica Comunale) ed è in realtà un atto tecnico con il quale l’organo politico del comune, non solo fissa i limiti per le sorgenti sonore esistenti, ma pianifica gli obiettivi ambientali di un’area, tanto che gli strumenti urbanistici comunali (piano regolatore generale, piano urbano del traffico e piano strutturale)  devono adeguarsi al piano di classificazione acustica del territorio comunale.

Grazie alla zonizzazione acustica sarà più facile per il giudice e per il sindaco valutare di caso in caso se le immissioni superino la normale tollerabilità.

In estrema sintesi colui che ritenga di subire un danno alla salute derivante dalle immissioni rumorose altrui, può agire in sede civile esercitando azione inibitoria e risarcitoria, agire in sede penale oppure agire in sede amministrativa chiedendo l’intervento delle autorità al fine di misurare i rumori ed inibire il protrarsi del disturbo.

Accertato il superamento del livello di comune accettabilità e dunque appurata la necessità di ricorrere all’autorità giudiziaria, ai fini della determinazione del giudice competente in simili fattispecie, si fa riferimento all’art. 7 c.p.c., che stabilisce che la competenza per materia è del Giudice di Pace, il quale è chiamato a decidere “per le cause relative a rapporti tra proprietari o detentori di immobili adibiti a civile abitazione in materia di immissioni di fumo o di calore, esalazioni, rumori, scuotimenti e simili propagazioni che superino la normale tollerabilità” (art. 7 ,comma 3, n. 3).

Tuttavia, quando la domanda giudiziale è fondata sulla sul divieto di immissioni contenuto nel regolamento contrattuale condominiale che, peraltro, può essere anche più restrittivo rispetto alla normativa generale sopra esposta, la competenza per materia è devoluta al Tribunale.

Questo il principio di diritto ribadito dalla Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 22730, pubblicata in data 28 settembre 2017.

Alcuni condòmini evocavano in giudizio, dinnanzi al Tribunale di Rieti, un altro condomino, “colpevole” di aver realizzato un condotto di scarico della stufa a pellets all’interno della canna fumaria condominiale, destinata invece allo scarico dei fumi del gas.

Così facendo, avrebbe fatto confluire fumi altamente nocivi all’interno delle abitazioni, nonché provocato rumori intollerabili in conseguenza dell’ulteriore installazione di un sistema di ventilazione, e ciò nonostante il preciso divieto imposto dal regolamento contrattuale condominiale.

Chiedevano, pertanto, la declaratoria di illegittimità delle suddette installazioni, con la conseguente rimozione delle stesse, nonché il risarcimento dei danni cagionati.

Instauratosi regolarmente il contraddittorio, il Tribunale di Rieti, con ordinanza, declinava la propria competenza in favore del Giudice di pace.

Tuttavia, quando, come nel caso di specie, la domanda giudiziale è fondata “sull’opponibilità di uno specifico divieto contenuto nel regolamento contrattuale condominiale”, essa è estranea alla competenza stabilita dall’art. 7, terzo comma, n. 3. c.p.c. Ne consegue, ha precisato detta pronuncia, “che quando si invoca, a sostegno dell’obbligazione di non fare, il rispetto di una clausola del regolamento contrattuale che restringa poteri e facoltà dei singoli condomini sui piani o sulle porzioni di piano in proprietà esclusiva, il giudice è chiamato a valutare la legittimità o meno dell’immissione, non sotto la lente dell’art. 844 cod. civ., ma esclusivamente in base al tenore delle previsioni negoziali di quel regolamento, costitutive di un vincolo di natura reale assimilabile ad una servitù reciproca”.

In conclusione, qualora la domanda miri ad ottenere la valutazione, ex art. 844 c.c, del superamento della normale tollerabilità dell’immissione, in virtù del contemperamento delle contrapposte esigenze e della antecedenza di un determinato uso, la competenza è del Giudice di Pace; mentre, se la domanda tende anche a far valere uno specifico divieto imposto dalla clausola regolamentare, si fuoriesce dall’ambito applicativo dell’art. 844 c.c., con la conseguenza che l’autorità giudiziaria competente risulta il Tribunale.

 

RIFERIMENTI NORMATIVI E GIURISPRUDENZIALI

  • 844 c.c.;
  • 2043 c.c.;
  • 659 c.p.;
  • n. 47830/2013;
  • 447/1995;
  • 32 Cost.;
  • 7 c.p.c.;
  • n. 22730/2017


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