
Appropriazione indebita e reati similari riconducibili alla amministrazione d’immobili
Chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria il denaro o la cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a milletrentadue euro.
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L’articolo 646 del codice penale punisce con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a € 1032 chiunque per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria il denaro o altra cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo il possesso.
Il reato è punto a querela della persona offesa, ma si procede d’ufficio se l’appropriazione è commessa su cose detenute a titolo di deposito necessario (in questo caso la pena è anche aumentata) o se ricorre … talune delle circostanze indicate nel n. 11 dell’articolo 61. A norma dell’art. 61 n. 11, aggrava il reato l’aver commesso il fatto con abuso di autorità o di relazioni domestiche, ovvero con abuso di relazioni d’ufficio, di prestazioni d’opera, di coabitazione, di ospitalità.
L’articolo 646 del codice penale, come sopra richiamato, è norma incriminatrice (o norma penale in senso stretto) in quanto ricollega una sanzione penale (nella specie: reclusione e multa) al verificarsi della condotta descritta nella norma medesima.
Il reato (inteso appunto come fatto alla commissione del quale la legge ricollega la sanzione penale di volta in volta prevista) si deve ritenere perfezionato laddove si verifichino tre condizioni:
– l’agente (ovvero colui che agisce, che compie la condotta) commetta un fatto coincidente con quello della condotta incriminatrice;
– la condotta sia assistita dall’elemento c.d. Psicologico (a seconda dei casi: dolo e/o colpa; preterintenzione);
– sussista in concreto la c.d. antigiuridicità, che normalmente si ritiene sussistere laddove in concreto non vi siano le cc.dd. cause di giustificazione(es.: difesa legittima; stato di necessità; ecc.).
Ciò premesso, si deve sottolineare che in diritto penale la descrizione del fatto-reato contenuta nella norma incriminatrice è particolarmente importante, in quanto affinché il fatto-reato possa dirsi integrato, la condotta dell’agente deve corrispondere esattamente a quella di cui alla norma penale; in altra parole, in diritto penale non è ammessa la c.d. analogia (ovvero la punizione dell’agente in forza di disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; si cfr. l’art. 12, comma secondo, delle Disposizioni sulla legge in generale).
In particolare, nell’ordinamento giuridico italiano l’analogia è vietata dall’articolo 25 della Costituzione dell’articolo 1 del codice penale.
L’articolo 25, comma secondo, Costituzione prevede: Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso.
L’articolo 1 del codice penale: Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano dalla stessa stabilite.
E’ precipitato logico di detto principio l’ulteriore, conseguente principio di tassatività della norma incriminatrice; ovvero, quello secondo il quale il fatto-reato deve essere descritto in termini tanto precisi da poter dare la possibilità all’agente di conoscere (appunto prima dell’inizio della sua azione, cosa gli sia consentito e cosa no).
Anche la nota sentenza della Corte costituzionale 24.03.1988 n. 364, temperando il principio di irrilevanza della ignoranza della legge penale (precedentemente) stabilito dall’articolo 5 del codice penale, ha dichiarato l’incostituzionalità di questo articolo nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile, tocca e valorizza il principio di tassatività: il soggetto agente deve essere in grado di conoscere il precetto penale.
La descrizione del fatto-reato è quindi di primaria importanza per verificare se un determinato comportamento può (e deve) essere ricompreso nella sfera di operatività di una norma incriminatrice; vi sono dei casi in cui in concreto può essere dubbio se un determinato comportamento debba ritenersi sussumibile in una determinata fattispecie incriminatrice piuttosto che in un’altra (si veda in fra).
Ciò accade nel caso in cui sia necessario verificare se, a parità di elementi essenziali di due fattispecie incriminatrici che si diversifichino fra loro solo in forza di un elemento ulteriore e differente, una determinata condotta o parte della stessa debba ritenersi concretizzare quell’elemento essenziale qualificante la prima o la seconda diversa ed ulteriore fattispecie.
Quanto sopra può ad esempio verificarsi nel rapporto fra delitto di furto e delitto di appropriazione indebita (si veda oltre).
Sono poi detti elementi essenziali quegli elementi della norma penale che devono necessariamente verificarsi affinchè il reato (delitto o contravvenzione) debba ritenersi integrato: fatto-reato, elemento psicologico e antigiuridicità).
Leggendo l’articolo 646 c.p., si rileva che gli elementi essenziali di tale fattispecie sono:
- la finalità di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto (c.d. dolo specifico);
- l’appropriazione di denaro o cosa mobile altrui
- il possesso a qualsiasi titolo del denaro o della cosa mobile altrui oggetto di appropriazione.
A titolo di esempio, è invece mera circostanza (nella specie aggravante) quella sopra richiamata (articolo 646, comma secondo c.p.) che consiste nell’aver commesso il delitto su cose possedute a titolo di deposito necessario (Cassazione 10.01.2013 n. 9750 dep. 01.03.2013: Il deposito necessario è, come noto, un istituto giuridico risalente al diritto romano (depositum miserabile) ravvisato quando una persona, trovandosi in stato di pericolo grave ed urgente, era costretta ad affidare la custodia dei beni al primo venuto. In questa evenienza il depositario che avesse abusato della situazione, comportandosi in modo contrario alla buona fede, rischiava una maggiore condanna (in duplum), giudicandosi ovviamente più grave il suo contegno illecito. L’istituto del deposito necessario era contemplato dal codice civile Zanardelli del 1865, che ne offriva all’art. 1864 la seguente definizione: quel deposito cui uno è costretto da qualche accidente, come un incendio, una rovina, un saccheggio, un naufragio o altro avvenimento non preveduto”. Lo stesso codice (artt. 1865 e 1868), precisando che il deposito necessario era sottoposto a tutte le regole previste per il deposito volontario salvo che per la prova testimoniale (consentita per il deposito necessario), introduceva specifiche disposizioni ed obblighi per particolari categorie di esercenti (osti, albergatori, vetturini). L’attuale codice civile ha nominalmente eliminato la figura del deposito necessario dal novero dei contratti, sul presupposto del sostanziale assorbimento dei crismi di particolare affidabilità propri dell’istituto nelle connotazioni normative della vigente disciplina del contratto di deposito (il depositario deve usare nella custodia la diligenza del buon padre di famiglia: art. 1768 c. c.) e della novativa regolamentazione di rapporti già qualificati come depositi necessari dal codice Zanardelli (deposito in albergo: art. 1783 c.c.). L’unica traccia nominale del deposito necessario è oggi rinvenibile nell’ordinamento penale, che considera circostanza aggravante l’appropriazione di cose custodite a titolo di deposito necessario sia nel diritto comune (art. 646 c.c., comma 2) che nel diritto militare (art. 235 c.p.m., comma 2)”
Per completezza, quanto poi all’ulteriore circostanza aggravante di cui all’art. 61 n. 11 cp, sull’insegnamento della Suprema Corte occorre sottolineare che “… l’espressione “abuso di relazioni di prestazione di opera” non coincide con la nozione civilistica di locazione d’opera (Cass. 2, n. 26850/2013), ma abbraccia, oltre all’ipotesi di un contratto di lavoro, tutti i rapporti giuridici che a qualunque titolo comportino un vero e proprio obbligo – e non una mera facoltà – di “facere” e che instaurino, comunque, tra le parti un rapporto di fiducia dal quale possa essere agevolata la commissione del fatto (Cass. 2, n. 6350/2015; Cass. 2, n. 42352/2005; Cass. 6, n. 2717/1995), a nulla rilevando la sussistenza di un vincolo di subordinazione o di dipendenza (Cass. 2, n. 14651/2013; Cass. 2, n. 38498/2008; Cass. 2, n. 895/2004; Cass. 2, n. 895/2003)” (Cassazione 08.03.2016 n. 12869 dep. 30.03.201 6).
Tutto ciò premesso, SS.UU. 25.05.2011 n. 20.10.2011 n. 37954 chiarisce e riassume: “… il principio è che può essere ritenuto responsabile di appropriazione indebita colui che, avendo ricevuto una somma di denaro o altro bene fungibile per eseguire o in esecuzione di un impiego vincolato, se l’appropri dandogli destinazione diversa e incompatibile con quella dovuta. Possono indicarsi, a mero titolo esemplificativo, le ipotesi di denaro o beni fungibili conferiti come mezzo per l’esecuzione di una qualche forma di mandato ovvero riscossi dal rappresentante per conto del rappresentato o in esecuzione di un mandato senza rappresentanza, dati in deposito o pegno irregolare o – non potendosi escludere in astratto un tale tipo di contratto avente oggetto, ad pompam, cose fungibili – in comodato, come caparra o a garanzia, per il conferimento o l’impiego in fondo patrimoniale separato.”
E’ bene chiarire che la predetta sentenza n. 37954/2011 applicando ex adverso tale principio afferma che non integra il reato di appropriazione indebita, ma mero illecito civile, la condotta del datore di lavoro che ha omesso di versare al cessionario la quota di retribuzione dovuta al lavoratore e da questo ceduta al terzo”; ma attenzione: ciò sul presupposto secondo il quale in tale caso concreto il lavoratore aveva finito per trattenere denaro proprio, e quindi non dotato della qualità di altruità richiesta (quale elemento essenziale) dalla fattispecie incriminatrice.
Diverso sarebbe il caso dell’amministratore di immobile condominiale, laddove infatti il denaro sarebbe non già quello del professionista, ma dei condomini, ciò con la conseguenza secondo la quale, in questo caso, si dovrebbe ritenere integrata proprio la fattispecie dell’appropriazione indebita in forza del principio generale richiamato dalla stessa pronuncia e qui appena più sopra trascritto.
Identica situazione (mancanza di illecito penale) laddove il datore di lavoro trattenga del denaro che tuttavia, in forza di tale condotta sia rimasto nel patrimonio dello stesso datore di lavoro, ove si trovava ab origine. Si cfr, sul punto, Sezioni Unite 27.10.2004 n. 1327 dep. 19.01.2005 (specificamente in materia di somme trattenute da imprenditore edile sugli stipendi dei lavoratori e che sarebbero state destinate alla Cassa Edile per ferie, gratifica natalizia e contributi).
Infatti, esattamente nel senso sopra chiarito, Cassazione 11.11.2010 n. 41462 dep. 23.11.2010 insegna: “… Non è decisivo il richiamo alla sentenza delle SS.UU. N 1327/05 [in relazione alla condotta appropriativa dell’amministratore di immobili; N.d.R.] che riguarda l’accantonamento di trattenute, non aventi natura contributiva previdenziale e assistenziale, da versare alle Casse Edili; deve, invece, ritenersi – per quanto riguarda le trattenute che devono essere periodicamente versate agli istituti previdenziali per il trattamento di fine rapporto del dipendente – commette il reato di appropriazione indebita l’amministratore del condominio che, avendo ricevuto dei condomini gli importi relativi al pagamento dei contributi previdenziali relativi al portiere dello stabile, ometta versarli all’istituto previdenziale…”.
In ordine poi alla finalità di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, da qualificarsi tecnicamente come dolo specifico, Cassazione 17.05.2013 n. 29451 dep. 10.07.2013 specifica che lo stesso può essere anche meramente potenziale e che non deve necessariamente rivestire connotazioni di carattere patrimoniale: “ per la configurazione del delitto di cui all’art. 646 c.p., basta che l’ingiusto profitto sia potenziale, non essendo necessario che esso si realizzi effettivamente, il che emerge pacificamente dal rilievo che la norma richiede solo che il soggetto attivo agisca “per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto”.
In altre parole basta – per il dolo specifico che caratterizza la fattispecie – il mero intento di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, a prescindere dalla concreta sua realizzazione.
Nel caso di specie, correttamente i giudici del merito hanno ravvisato il fine di profitto perseguito dall’odierno ricorrente nel fatto di continuare ad amministrare il condominio, il che lo poneva (e ciò non costituisce mera ipotesi, ma oggettiva constatazione) in condizioni di accampare ulteriori pretese o comunque di rendere più difficoltosa (se non di paralizzare) l’amministrazione del condominio stesso, giacché – come emerge dalla gravata pronuncia – il M. continuava a considerarsi amministratore del condominio ritenendo illegittima la delibera assembleare che lo aveva revocato, al punto da invitare i condomini dissenzienti a sottoscrivere un documento in suo sostegno.
E appena il caso di ricordare che l’ingiusto profitto di cui all’art. 646 c.p., non deve necessariamente connotarsi in senso patrimoniale (cfr. Cass. Sez. 2^ n. 40119 del 22.10.10, dep. 12.11.10)”.
Quanto al momento consumativo, il delitto di appropriazione indebita è reato c.d. a carattere istantaneo, infatti si perfeziona al compimento di un atto di dominio, ovvero con una condotta (attiva od omissiva) che implichi la volontà espressa o anche implicita di tenere questa come fosse propria.
Esattamente in questo senso, Cassazione 11.05.2016 n. 27363 dep. 04.07.2016: “ … circa il momento consumativo dei fatti e le modalità di apprensione del denaro rileva quell’orientamento secondo cui (Sez. 2, Sentenza n. 29451 del 17/05/2013, Rv. 257232) il delitto di appropriazione indebita è reato istantaneo che si consuma con la prima condotta appropriativa e, cioè nel momento in cui l’agente compia un atto di dominio sulla cosa con la volontà espressa o implicita di tenere questa come propria; così la Corte ha ritenuto perfezionato il delitto di appropriazione indebita della documentazione relativa al condominio da parte di colui che ne era stato amministratore, non nel momento della revoca dello stesso e della nomina del successore, bensì nel momento in cui l’agente, volontariamente negando la restituzione della contabilità detenuta, si era comportato “uti dominus” rispetto alla “res“.
La stessa pronuncia aveva confermato la condanna di un amministratore di immobile che nella stessa qualità a mezzo di periodici prelievi dal conto corrente del condominio da lui amministrato si era appropriato di somme del condominio medesimo.
In tal senso e con riferimento a tale fattispecie, in quel contesto al fine di individuare il momento perfezionativo del reato, la Suprema Corte ha anche precisato: “… deve …. ritenersi che l’utilizzo delle somme versate nel conto corrente da parte dell’amministratore durante il mandato non profila l’interversione nel possesso che si manifesta e consuma soltanto quando terminato il mandato le giacenze di cassa non vengano trasferite al nuovo amministratore con le dovute conseguenze in tema di decorrenza dei termini di prescrizione. E difatti avendo l’amministratore la detenzione nomine alieno delle somme di pertinenza del condominio sulle quali opera attraverso operazioni in conto corrente, solo al momento della cessazione della carica si può profilare il momento consumativo dell’appropriazione indebita poiché in questo momento rispetto alle somme distratte si profila l’interversione nel possesso.”
Sempre in merito alla appropriazione di somme, è anche interessante un richiamo a Cassazione 10.06.2016 n. 38660 dep. 16.09.2016 chiarendo che il mancato versamento da parte dell’amministratore di immobile di somme dovute all’Erario concretizza il reato di appropriazione indebita: “ … , risultando dimostrato che il C. aveva ricevuto dai condomini, oltre alla somma per il compenso delle prestazioni del geom. R., anche l’ulteriore somma che il ricorrente avrebbe dovuto versare all’erario, per conto del condominio quale sostituto di imposta ed a titolo di ritenuta d’acconto, e non essendo stata versata tale somma all’Agenzia delle Entrate, invano lo stesso professionista, e poi anche altro condomino, si erano rivolti al C. chiedendogli la ricevuta dell’avvenuto pagamento, così come invano i condomini gli avevano spedito una raccomandata con richiesta di convocare l’assemblea per dar conto della somma che avrebbe dovuto versare come ritenuta d’acconto. Si tratta di ricostruzione che senza vizi logici ha indotto i giudici di merito a riconoscere l’appropriazione delle somme e della documentazione da parte del ricorrente, sicché non può integrare vizio di legittimità la mera prospettazione, da parte di questo, di una diversa valutazione delle risultanze processuali (Sez. Un., 3 0/4/1997, n. 6402, riv. 207944; Sez. 4, n. 4842 del 02/12/2003, Rv. 229369), per di più con considerazioni ininfluenti in relazione al caso di specie, atteso che è evidente che la somma ricevuta non poteva essere l’unica ricevuta dal ricorrente per la gestione del condominio, che inevitabilmente disponeva anche di altre entrate per il pagamento delle utenze condominiali. nè l’indicazione dell’importo della ritenuta d’acconto per le prestazioni rese dal geom. R. tra le passività del bilancio risulta incompatibile con l’appropriazione indebita contestata al C.”
Cassazione 21 .12.2015 n. 10758 dep. 14.03.2016 ribadisce il criterio del possesso inteso nel senso penalistico di detenzione come anche sopra richiamato per la individuazione del delitto di appropriazione indebita e per la distinzione con altre figure di reato (nella specie con quella di furto).
In conformità a tale principio, la Suprema Corte ha confermato la condanna per furto aggravato di un dipendente di banca che si era appropriato …. rectius: impossessato di somme di denaro che erano state versate dai clienti dell’Istituto sui loro conti, sul presupposto che per tale ragione, ai sensi dell’art. 1834 cod. civ., le somme erano diventate di proprietà dell’Istituto medesimo e, quindi, non erano nelle detenzione dell’agente, in particolare così motivando sul punto: “ … decisivo per la corretta qualificazione della condotta è allora il fatto, già adeguatamente valorizzato dalla Corte territoriale, che T.M. non aveva alcuna disponibilità autonoma del denaro depositato sui conti dei clienti della banca per cui lavorava poichè, anche considerando che tali somme erano divenute di proprietà dell’istituto di credito ai sensi dell’art. 1834 cod. civ. (e, difatti, la persona offesa era stata in questo identificata in imputazione), la stessa non ne aveva alcuna disponibilità, per conto dell’istituto di credito, tantomeno autonoma”.
Cassazione 16.04.2014 n. 31192 dep. 16.07.2014 conferma la condanna sia per il delitto di cui all’art. 646 cp che per quello di cui all’art. 388 cp (mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice) in relazione alla condotta di un amministratore di immobile che si era rifiutato di consegnare documentazione condominiale (art. 646 cp) e, quindi, successivamente non aveva ottemperato l’ordine di consegna della predetta documentazione formulato dal Tribunale ad esito di procedimento ex art. 700 cpc.
Nella stessa sentenza la Suprema Corte ritiene correttamente provata la sussistenza del dolo specifico ex art. 646 cp nella ostinazione con la quale l’agente si era rifiutato di provvedere alla consegna della documentazione, in quanto essa stessa sintomatica dell’interesse acché non venisse effettuato un controllo sulla gestione patrimoniale dallo stesso tenuta.
La sentenza conferma poi l’indirizzo secondo il quale il delitto di mancata esecuzione dolosa di provvedimento del giudice non è posto a posto a generico presidio dell’autorità delle pronunce giurisdizionali, quanto invece dell’effettività della giurisdizione, per i casi in cui i provvedimenti dell’autorità giudiziaria non possano di fatto eseguirsi senza la collaborazione dell’intimato.
Infatti, si legge tra l’altro nella pronuncia: “… rientrano tra i provvedimenti cautelari del giudice civile la cui dolosa inottemperanza da luogo a responsabilità penale, tutti i provvedimenti cautelari previsti nel libro 4^ del codice di procedura civile, e quindi non soltanto quelli tipici, ma anche quello atipico adottato ex art. 700 c.p.c., purché attinente in concreto alla difesa della proprietà, del possesso o del credito, poiché l’art. 388 c.p., comma 2, costituiva (e costituisce, nella sua attuale formulazione) presidio penale esclusivamente per i provvedimenti cautelari emessi nelle materie tassativamente indicate dalla norma, Va, pertanto, affermato il seguente principio di diritto: <Tra i provvedimenti del giudice civile che prescrivono misure cautelari, la cui inosservanza è penalmente sanzionata dall’art. 388 c.p., comma 2, rientrano anche i provvedimenti di urgenza emessi a norma dell’art. 700 c.p.c., ma a condizione che essi attengano alla difesa della proprietà, del possesso o del credito>. 1.2. Nel caso di specie, peraltro, non può dubitarsi che il provvedimento di urgenza de quo attenesse alla proprietà, pacifico essendo che l’ordine (non osservato) di consegna della documentazione contabile inerente all’amministrazione di un condominio incidesse sulla proprietà condominiale, impedendone la corretta amministrazione. 1.4. Quanto al dolo specifico richiesto ad integrazione del delitto di cui all’art. 646 c.p., la Corte di appello (f. 4), con rilievi esaurienti, logici, non contraddittori, e pertanto incensurabili in questa sede ha compiutamente ricostruito le vicende de quibus ed indicato gli elementi posti a fondamento dell’affermazione di responsabilità e della qualificazione giuridica dei fatti, valorizzando, in particolare (in accordo con la sentenza di primo grado, come è fisiologico in presenza di una doppia conforme affermazione di responsabilità), <l’ostinazione con la quale il C. si è rifiutato di consegnare detta documentazione”, motivatamente ritenuta sintomatica del fatto “che egli avesse un preciso interesse a non consentire una ricostruzione della sua gestione patrimoniale, traendone una specifica utilità>.”
Anche Cassazione 27.09.2016 n. 47307 dep. 10.11.2016 ribadisce che la fattispecie di cui all’art. 388 cp presidia anche i provvedimenti emessi ad esito di procedure ex art. 700 cpc (nei limiti sopra detti: tutela dell’effettività della giurisdizione) e nel contempo ribadisce “ …il principio secondo cui integra il reato di cui all’art. 388 c.p., comma 2, la condotta dell’amministratore che, in violazione del provvedimento di sequestro giudiziario delle quote dei soci accomandanti di una società gestita dall’imputato, opponga al custode giudiziario una condotta ostruzionistica – in particolare omettendo di consegnare i documenti contabili ed amministrativi – e così impedisca la ricostruzione dell’entità del patrimonio sociale, trattandosi di comportamento elusivo di un obbligo non coattivamente eseguibile (Sez. 6, n. 2267 del 12/03/2014 dep. 16/01/2015, Agosta, Rv. 261796)”.
Ancora, Cassazione 21.03.2002 n. 13551 dep. 09.04.2002 ha nella condotta di impossessamento da parte di un condomino di energia elettrica del condominio, ha ritenuto la sussistenza del delitto di cui all’art. 627 cp (sottrazione di cose comuni) laddove l’agente non abbia la detenzione dell’energia (da considerarsi cosa mobile ex art. 624 c.p.), avendo utilizzato una presa che sia nella esclusiva materiale disponibilità di altra persona dovendosi altrimenti considerare integrato l’altro delitto, previsto dall’art. 646 cp. “… per la realizzazione del delitto di furto di cose comuni é necessario che l’agente non abbia la detenzione del bene sottratto, dal momento che l’articolo 627 C.P. richiede per la sussistenza del reato in questione che il comproprietario si impossessi della cosa, “sottraendola a chi la detiene”; così che, nell’ipotesi di sottrazione in danno di un condominio di energia elettrica – considerata cosa mobile ex articolo 624, comma 2, C.P. – saranno integrati gli estremi del reato previsto dall’articolo 627 C.P., ove il comproprietario/condomino non abbia la “detenzione” dell’energia, e cioé utilizzi una presa che si trova nella esclusiva materiale disponibilità di altra persona; mentre, nel caso in cui ne utilizzi una messa a disposizione di tutti i condomini (ovviamente per un uso dell’energia stessa nell’interesse comune) si realizzano gli estremi del delitto di cui all’articolo 646 C.P., dovendosi tale situazione assimilarsi a quella del compossesso”.
Per completezza, si deve sottolineare che detta pronuncia 13551/2002 è intervenuta prima dell’abrogazione dell’art. 627 c.p. ad opera dell’art. 1, comma 1 lett. “d”, D. L.vo 15.01 .2016 n. 7. Lo stesso decreto ha poi previsto quale illecito civile punto con la sanzione pecuniaria civile da euro cento a ottomila la condotta del comproprietario, socio o coerede che, per procurare a sé o ad altri un profitto, si impossessa della cosa comune, sottraendola a chi la detiene salvo che il fatto sia commesso su cose fungibili e il valore di esse non ecceda la quota spettante al suo autore.